Il Forno Fusorio di Livemmo
Il territorio dove è situato il forno, incuneato in una strettissima valle, rivela una certa arditezza, giudicandolo noi inadatto e logisticamente scomodo.
Ma le tecniche del tempo evidentemente prevedevano parametri di individuazione dei luoghi ben diverse dalle nostre.
Importanza fondamentale, per quest’impresa, oltre all’acqua, era la presenza di fitte boscaglie.
Del forno fusorio di Livemmo, in specifico, non si hanno approfondite notizie.
Cessò la sua attività nel 1848, come si evince da un rapporto del 1851 dedicato agli impianti siderurgici presenti in Valle Sabbia e redatto dal commissario distrettuale di Vestone. Inattività dovuta a seguito della progressiva e, sembrava inarrestabile, decadenza dell’industria siderurgica in Valle.
La vena qui lavorata proveniva da Collio Val Trompia e si chiamava anticamente “molle”, nel secolo XVI fu chiamata “ossi”, perché dava ferro duro o “azzale”.
L’escavazione del minerale di ferro era attuata in gallerie che seguivano la “vena”: un dedalo di cunicoli, che procedevano senza piani prestabiliti, a cui si accedeva per mezzo di piani inclinati e pozzi.
La “vena” estratta subiva una immediata prima cernita. Una successiva depurazione avveniva nelle “regane”, fornaci poste nei pressi della miniera.
Particolare importanza, in questo contesto, ha il trasporto del materiale, effettuato con muli e cavalli.
Il minerale viaggiava in modo privilegiato e, dopo la prima fase di arrostimento in prossimità delle miniere, era portato ai forni fusori “coi muli per sentieri aspri e pericolosi” si legge negli svariati documenti.
Tutto si doveva allora “portar di lontano sulle spalle…tutto sul dorso…”.
Ma come era il forno? Soldo ce lo descrive quasi con avvertito stupore:
“Con o senza mantici, (con) o senza rota, ma solo col vento causato dall’acqua che artificiosamente casca in certe concavità, lavora colando la vena et facendo il ferro come fanno gli altri forni che vanno con ruote et mantici, et manco spesa assai; cosa stupenda et degna di essere veduta”.
Armi bianche venivano lavorate nella “Perticha”, unitamente a chioderie, attrezzi agricoli e lamiere, produzione quest’ultima di spicco nelle 35 fucine del Savallese.
A Livemmo, nel luglio del 2004 una attenta e mirata campagna archeologica ha condotto le operazioni di scavo portando alla luce almeno una parte dei resti dell’impianto fusorio. È stato così stato possibile far emergere la struttura del “cannecchio”, vale a dire la “macchina” fusoria. Tale ritrovamento ha un’importanza notevole nel campo dell’archeologia industriale, poiché il Forno di Livemmo è una delle poche strutture fusorie del Bresciano che abbia conservato l’aspetto primordiale, cioè quello descritto dagli statuti di Valle Sabbia del 1573.