Il perché di un ingente patrimonio artistico e architettonico nella Pertica di Valle Sabbia
Economia montana non sempre significa povertà!
In maniera spesso superficiale si considera il passato storico e artistico dei territori montani come cosa piccola, insignificante, residuale, quasi immota fotografia di stereotipi consolidatisi nel tempo: montagna come luogo, se non di arretratezza, quanto meno di povertà conclamata!
D’accordo, la vita in montagna, nei tempi che furono (in parte anche oggi) era di estremo sacrificio, di assoluta assuefazione alla fatica, di dedizione totale alla cura di territori irti ed aspri, non certo prodighi di abbondanti e scontati prodotti.
Ma i montanari e i valligiani spesso ci sapevano fare!
Lo riconosceva anche il Capitano e Vice Podestà Marc’Antonio Corner, anno 1628, nella sua relazione a Venezia: “… et ho ammirato che queste Valli, che non raccolgono biave per doi mesi dell’anno, non sentano più la povertà che l’istesso piano, perché l’industria supplisse al mancamento della natura, le castagne alla scarsità del grano et il buon governo nella partecipatione de beni communi prevale alla soggetione de poveri contadini del piano pressati come nelli altri luochi dell’avaritia de richi et potenti”.
E Ottavio Rossi, ne “Le memorie bresciane…”, rivedute da Fortunato Vinaccesi (1693), asseriva essere questi uomini, montanari e valligiani, “…ordinariamente sottili, dediti all’arme e pieni d’industria e di vigore”.
Non sfuggivano a questa determinata e, tutto sommato, positiva descrizione gli uomini dell’antica “Universitas Pertichae Vallis Sabbij”, quasi una repubblichetta semi-indipendente della più ampia Quadra di Valle Sabbia. Nell’ambito di un dominio veneziano sufficientemente prodigo di concessioni e di esenzioni, la loro vita economica era legata alla presenza di ben tre forni fusori: quello di Livemmo, di Forno d’Ono e di Levrange, con una complessiva manodopera diretta e indotta di circa 200/250 lavoranti per forno. Questa situazione di metallurgia d’avanguardia per quei tempi (si pensi all’innovazione della tromba eolica) portava a considerare il territorio fruitore di una certa agiatezza economica (non di tutti, ovviamente), che, congiunta con una estesa attività agricola di complemento, faceva sì che fossero presenti mezzi economici e strumenti culturali per arricchimenti di vita collettiva, sociale e religiosa.
In altro modo non si potrebbero spiegare l’enorme quantità di edifici religiosi e civili costruiti negli anni, dall’VIII secolo in poi, fino al Sette/Ottocento.
Non poteva certo bastare solo una saldissima fede a far sorgere in questo territorio, montano e scosceso, spesso franoso e inondato, oltre una ventina di edifici sacri, tutti di pregio e tutti afferenti a correnti artistico-architettoniche di rilevante spessore, non localistico o curtense, ma ampio, tra ed oltre i confini della Serenissima Repubblica.
Ma anche i fuorusciti guelfi bresciani, rifugiatisi in questi monti agli albori del 1300, non potevano essere gli unici “giustificatori” di una serie di costruzioni civili, autentici palazzetti, di dimora e di difesa, che accomunavano la dovizia interna, tutta veneziana, con l’austera sobrietà delle costruzioni milanesi, congiuntamente ai decori, agli affreschi, agli arricchimenti floreali e simbolici di una società cavalleresca, aristocratica e, in questo caso, per nulla fannullona.
Esempio paradigmatico è stata senz’altro la casa-torre dei Butturini ad Ono Degno: una severa e snella dimora di attesa e di difesa, con sculture antropomorfe sugli affilati conci degli spigoli esterni, simbolo di aristocratico benessere e di predominanza culturale.
Avranno, questi fuorusciti, la loro naturale continuità nella potente e ed arricchita borghesia del forno e del commercio, del fondaco (a Venezia) o del negozio di Terraferma (Verona, Parma, Bologna, ecc.), in una nuova civiltà dell’utile e del conveniente, del socialmente destinabile per un accrescimento di individuale e personalissimo prestigio.
Accanto alla ricchezza ammassata, la schiera degli artisti, spesso incompresi o spendaccioni, volubili o prestigiosi, caratteriali o virtuosi, diventava forza dirompente e disponibile.
Anche le più remote ubicazioni potevano appropriarsene.
Perché non era questione di disagio geografico, ma di ampiezza di visioni dei committenti, supportata dalla cassa colma dei preziosi ducati o delle più umili “planette”.
E la Pertica, tutte queste caratteristiche le aveva, accresciute anche da un discreto numero di artisti locali, che a scuola ci andavano, eccome, ma con la malcelata furbizia dell’imparare l’arte dei maestri per poterla, poi, in un prossimo domani, superarla. Con il plauso non dei compaesani, spesso ingrugniti sulla falce e sul rastrello, ma dei raffinati cittadini, di quelli che contavano, per il salto di qualità.
Se, poi, si aggiungeva che la spavalda competizione tra i Territori montani nell’aver più preziose opere l’uno dell’altro, faceva riscontrare lo strano (ma non troppo) dato di fatto che artisti presenti a Bagolino erano pure accertati nella Pertica, nel Savallese, nella media e bassa Valle Sabbia, nella Magnifica Patria di Salò compresa, il più è fatto.
Con una interessantissima conseguenza: periferia e città partecipavano, più o meno consapevolmente, ad un unico e dinamico Rinascimento, quello bresciano, affidando opere a grandissimi artisti per progettare e decorare chiese, cappelle, dimore, sia contribuendo egregiamente con artisti propri a quella ricca, articolata e attiva pinacoteca che era Brescia con tutto il suo Territorio.
Vi era un’altra componente da non sottovalutare, perché di primaria importanza.
Con la nascita e lo strutturarsi delle parrocchie, dai primi anni del 1500, si andavano costruendo o ampliando i diversi edifici religiosi dei borghi resisi autonomi dalla circoscrizione pievana: l’arte entrava in modo massiccio ed esemplare in questi templi che diventavano simboli identitari delle stesse comunità cui appartenevano.
I legami stilistici con le più diverse provenienze (dal Nord, dalla Toscana, dalla Fabbrica del Duomo di Milano, dalla Scuola della Certosa di Pavia, dai Sacri Monti dell’arco prealpino, dal colorismo veneto, ecc.) trovavano una benefica sintesi in Valle Sabbia e nella Pertica, incentivate dall’ardore edilizio della Controriforma, corroborate da una fede prodigiosa, mantenute da rigide tradizioni, ma anche da travolgenti predicazioni dei missionari, come quelle di padre Serafino Borra, in secoli di particolare pietà religiosa, come lo erano il Seicento e il Settecento. Quest’ultimo era stato virtuosamente definito il secolo d’oro della Chiesa bresciana, dominato con esemplarità dal cardinal Angelo Maria Querini (1680-1755).
Si scopriva l’associazionismo come forma di devozione, di preghiera, di suffragio. Sorgevano numerose le “diaconie”, le “confraternite”, le “cappellanie”, le “scholae” , che disponevano di altari per il culto e le pratiche religiose, entrando in competizione per l’altare più bello ed artistico, da realizzarsi con le offerte ed i lasciti, spesso di solide consistenze, per committenze di valore.
La successione di cappelle e di piccole chiese in un percorso insieme fisico e salvifico utilizzava la forza evocativa, educativa e persuasiva dell’arte per coinvolgere un pubblico “popolano”, assetato di immagini forti e conturbanti, realistiche e recitative.
Architettura, pittura, scultura, in legno, in terracotta, in stucco, abiti ed ornamenti reali, tutto convergeva nell’impegno di creare immagini edificanti, anche e soprattutto tridimensionali, mutuate dalla modalità e dalle forme delle antiche e tradizionali sacre rappresentazioni.
Qui, la forza del retaggio barocco faceva vibrare tutte le corde della “parlata realistica”, con quelle figure lignee (si pensi alle “cariatidi” delle parrocchiali di Avenone e di Lavino, ai “telamoni” di Levrange), anche e volutamente grossolane, che ben contrastavano con l’ideale ed eterea bellezza di Cristo Salvatore o di un Santo protettore.
E dire queste cose con il legno scolpito, modellato, reso docile alle proprie emozioni non era di secondaria importanza per quei periodi (Sei/Settecento), anche se, oggi, non viene considerato elemento di discriminazione la materia della quale è composta l’opera o dalla quale è stata tratta, bronzo che sia o legno o marmo.
Quest’ultima materia, poi, finiva per soppiantare, alla fine del Settecento e in tutto l’Ottocento, il legno, con costruzioni di intarsio di elevatissimo pregio, opere precipue delle botteghe di Rezzato a Levrange, ad Avenone, a Livemmo, a Lavino, a Navono, del Blasio nel santuario ad Ono Degno.
Era la scultura lignea, però, che era stata prevalentemente adoperata per immagini di natura cultuale e devozionale, alimento dell’anima, insomma. Nelle nostre valli, nella Riviera, nella zona pedemontana, se si escludevano i cinquecenteschi eccezionali apporti lignei del duomo di Salò (il Crocifisso di fra’ Paolo Moerich , il Cristo compianto dalle Pie Donne di autore ignoto del XVI secolo) e l’altro bellissimo quanto sconosciuto gruppo della “Dormitio Virginis” di Preseglie, ogni riferimento non poteva che dirsi perticarolo, nelle sue grandi scuole d’arte: i Bonomi di Avenone, con l’apporto del trentino Baldassar Vecchi, e i Boscaì di Levrange, eredi già di una tradizione cinquecentesca che vedeva nella Madonna e nel Crocefisso ligneo della loro parrocchiale (opere cinquecentesche di Terciberio) un esempio di nordica inflessione l’una, di drammatica espressività l’altro.
Le famiglie Pialorsi, detti Boscaì, non disgiunte dalla dinastia Zambelli di Levrange, lasciavano i segni dei loro agili scalpelli non solo nelle Pertiche (in quasi tutte le chiese), ma anche oltre, nelle Valli confinanti, soprattutto in Val Trompia e in Valgobbia, in quest’ultima stante l’arcipretato di due eminenze perticarole: Rossini don Pietro Antonio di Livemmo (a Lumezzane dal 1630 al 1681) e di Zambelli don Bartolomeo di Levrange (a Lumezzane dal 1681 al 1701).
Non mancavano, però, gli elementi del confronto e della competizione, perché ad Ono, nella frazione Beata Vergine, la soasa lignea del santuario, progettato dal Lantana, era di autore “foresto”, quel Montanino di Brescia che si poneva come artista di fama e di contrapposizione stilistica alla vicina bottega boscaina.
Abbandonata la visione di unità cristocentrica dell’altar maggiore, nel XVI secolo, la Chiesa consentiva di moltiplicare gli altari laterali e le cappelle, vivaci di policromie, di splendori coniugati con oro e legno, legno e marmo, sino alle grandiose forme architettoniche delle soase ad incorniciare le superbe tele del Seicento e del Settecento. Era, per lo più, una forma postconciliare di missione data all’arte, soprattutto lignea, di istruire il popolo di Dio e di edificarne la virtù mediante immagini sacre e di contrastare, con la ricchezza, lo sviluppo di un protestantesimo fondato sulla contestazione dello “spreco cattolico romano”.
Qui, la Pertica non soffriva il digiuno artistico, sia architettonico che pittorico e ligneo: tutt’altro!
Era testimone di una ricca e vivace scuola barocca, sia per l’abbondante materia prima (ferro, pietra, legno, ecc.), ma soprattutto per l’ingegno di quegli “huomini ordinariamente sottili”, che avevano portato il nobile patriziato locale alle artistiche ed importanti committenze per abbellire, decorare, arricchire dimore e piazze, chiese e palazzi, canoniche e municipi.
Per tutto il Quattrocento e per gran parte del Cinquecento c’era stata una autentica esplosione di ex-voto, dovuti a pittori locali o di passaggio, ma ben inquadrabili in correnti artistiche definite e ragguardevoli.
Era il caso degli affreschi di S. Martino di Levrange, della chiesa-santuario dei Morti di Barbaine, con una menzione di tutto rilievo per i lacerti della parrocchiale di S. Apollonio ad Odeno (polittico riscoperto, di architettura gotica, con al centro Cristo in croce, a sinistra la Vergine, a destra S. Giovanni, “topoi” di un percorso dottrinale e teologico particolarmente diffuso nel periodo citato) e della Maestà della chiesa di S. Maria a Forno d’Ono.
Se Francesco Paglia scriveva in una sua nota che in Valle Sabbia il Moretto vi avesse firmato più opere (rispetto a quelle che oggi conosciamo, come lo splendido S. Antonio di Auro), non si poteva nascondere che l’influenza della sua pennellata si fosse quasi dovunque diffusa nella Pertica.
“La Madonna col Bambino in gloria, S. Bernardo e S. Antonio da Padova”, nella parrocchiale di Belprato, e’ una tela di chiara impostazione morettesca, dove l’autore, secentesco, fissava “la figura mariana in un’algida luminosità, (… ), Vergine distesa, come un’antica Venere” (Michela Valotti), con tratti espressivi e connotazioni posizionali in copia con la “Madonna col Bambino in gloria, S. Giovanni Evangelista, il beato Lorenzo Giustiniani e l’allegoria della Sapienza Divina” dello stesso Bonvicino, ora al Museo Diocesano di Brescia.
Non si poteva non pensare che Bonvicino, Paolo Veronese, Jacopo Negretti, Tiziano fossero indifferenti alla mano di Pietro da Marone nel dipingere (1603) la pala dell’altar maggiore della chiesa parrocchiale di Livemmo.
E, se si confrontano la tela della Madonna del Rosario di Avenone (forte è il richiamo ai modi del Cossali) con quella, analoga e quasi speculare, di Lavino, non si può che confermare il grande livello d’arte ivi espresso.
Pale dipinte in loco, ma anche acquistate da illuminati imprenditori della affermata siderurgia locale, come l’opera, del 1632, di Pietro Mera, di origine fiamminga, ma veneziano di adozione, ora nella nuova parrocchiale dei SS. Martino e Rocco di Levrange.
Particolare, ma di pregio, è una piccola tela della Madonna della Concezione, nella chiesetta di Odeno, attribuita a Pietro Ricchi, detto il Lucchese; al di là della attribuzione, ragionata, colpisce a tutt’oggi il fatto della qualità pittorica degli autori, ben rappresentati in quel tempietto anche nella pala di S. Apollonio dell’altar maggiore e in quella, ad Avenone, di S. Bartolomeo (1670), entrambe di Giovanni Battista Bonomino, che si esprimeva, pur rifacendosi al colorismo veneto, con una individuale ed autorevole interpretazione.
Si tendeva ad essere eclettici, espressivi, legati alle principali correnti artistiche, ma non esenti da particolarismi espressivi personali ed originali: il salodiano Abram Grisciani, nelle tele delle parrocchiali di Livemmo (altare della “comunità”) e di Avenone (parete di destra) ne era un singolare esempio.
Attratti dai compensi di facoltosi committenti, accanto ai santi delle tradizionali devozioni, si dipingeva un mondo di devoti, ritratti appartenenti alla piccola aristocrazia economica locale che voleva imprimere un segno visibile della propria fede e nello stesso tempo della propria distinzione sociale.
Era Domenico Voltolini, nel primo Settecento, che lasciava anche nelle chiese perticarole un segno indelebile, distinto, nei movimenti e nel colore, nel gusto del particolare (di questo maestro risulta il Mombello nella parrocchiale di Levrange), così come nella grande raffinatezza e nello stesso tempo configurata robustezza dell’impianto scenico espresse nell’”Immacolata Concezione” di Ono Degno.
Tante volte si trattava di intere famiglie di pittori che si tramandavano la feconda attività artistica: il riferimento va ai Paglia, al padre Francesco, ai figli Antonio ed Angelo.
Antonio si connotava staccandosi dal classicismo del padre, come autore del realismo pacato, della semplicità di strutture ascensionali, di figure anche ieratiche ma popolane. Nella settecentesca parrocchiale di Belprato, lasciava la sua firma nel 1740 nella pala dell’altar maggiore (la Vergine col Bambino e S. Antonio abate) con una un linguaggio di forte devozione e di centrato impatto emozionale.
Ma era Pietro Scalvini che imprimeva al Settecento pittorico perticarolo (e bresciano) quella “bellezza fragile e un poco manierata per la quale i volti ed i corpi delle sue figure hanno il profumo d’una delicata giovinezza muliebre e le espressioni sono addolcite in teneri sottintesi”.
Così secondo Bruno Passamani (1964).
Parole che diventavano veritiere in quella tela, del 1751, dell’altare della Madonna del Rosario di Livemmo, dove la dolcezza della sacra effigie trovava debito contorno in una raffinatissima soasa lignea, tra putti e fiori, gli uni scolpiti e gli altri dipinti, armonica composizione di raro e scenografico effetto.
Scalvini era presente anche nella parrocchiale di Ono Degno, in tele che, nella sua produzione quasi sterminata, assurgevano a modelli di estro decorativo e di foga pittorica.
Nella stessa parrocchiale, una delle più belle chiese valligiane, Paolo Corbellini, “figlio di Giacomo Antonio della Parrocchia di Laino Val d’Intelvi”, affrescava e stuccava, nel 1748, la volta, che diventava proposta decorativa sostitutiva, in un gioco di illusioni visive, alla scultura, alla decorazione marmorea e agli intarsi lignei.
Queste opere, di vigore e di apertura al dibattito europeo delle varie Accademie, trascinavano nell’agone artistico anche pittori valligiani. Francesco Noventa, da Gavardo, firmava, nel 1754, la pala dell’altare di S. Luigi nella parrocchiale di Belprato, dove, a memoria scritta (1853) di Pietro Zani “vi erano altre stimabili pitture che lungo sarebbe enumerarle tutte”.
La parrocchiale dei SS. Martino e Rocco, a Levrange, offre all’analisi storico-artistica l’ancora poco noto Rizzardo Locatelli (una sorpresa) nella sua opera prettamente manierista “S. Sebastiano tra i SS. Fabiano e Rocco”; la tela risulta essere di un raffinato cromatismo, accostabile senz’altro a produzioni pittoriche di area centro-italiana (L. P. Gnaccolini, 2002).
I borghi di Bagolino, di Preseglie, di Mura, ecc., in Valle Sabbia, attraevano artisti di dichiarata fama.
Erano, per lo più, gli stessi che operavano nella Pertica.
Si evidenziano i casi di Camillo Rama e Gian Giacomo Barbello (“Crocifissione santi”, 1633) a Villa Mattina di Ono Degno, del già citato Lucchese ad Odeno, di Ottavio Amigoni (foltissima la sua produzione in Brescia) che versatilmente dipingeva (attribuzione ragionata) i “Misteri del Rosario” dell’omonima pala nella chiesa di S. Zenone ad Ono Degno.
Insomma, un composito patrimonio nei nostri borghi montani, per lo più inaspettato, che merita di essere posto all’attenzione.
Non si tratta che di alcuni esempi tra le innumerevoli relazioni possibili, tra gli intrecci offerti da una abbondante sequenza di capolavori.
Giuseppe Biati
Fotografie di Lorenzo Gabrieli