Il Carnevale a Livemmo: tra storia e tradizione
Nelle comunità agricole, come la Pertica, dopo la specifica festa di S. Antonio abate, che termina generalmente con l’inizio della Quaresima, il gruppo abbandona la norma, cioè il quotidiano, decretando un periodo di “caos”, di mondo alla rovescia, nel quale il buffone può diventare re e viceversa, invertendo così l’ordine sociale costituito. Decade ogni tipo di gerarchia. Attraverso il mascheramento, arriva il Carnevale: si esce dal quotidiano, ci si disfa del proprio ruolo sociale (soprattutto se basso) e, negando la propria identità a se stessi, si può diventare qualsiasi altro. Ci si inoltra nel sovvertimento, nell’eccesso, nella lotta o rivalità tra entità e/o ceti diversi, quasi opposti: bene-male, bello-brutto, sacro-profano, maschio-femmina, contadino-allevatore, padrone-servo, ecc.
A Livemmo questa interpretazione della vita raggiunge, nel suo Carnevale, momenti di controllato delirio nelle tre maschere fondamentali, (ma semplicistica ne è tale riduzione): la “vècia del val”, l’”omahì dal zerlo”, il “doppio”. Esse portano in campo, anzi in piazza, la ribellione ad uno “status” generazionale, a classi sociali rese chiuse, forse non istituzionalmente, ma da una endemica povertà e conseguente incapacità situazionale a risollevarsi, a condizioni servili umili – quale quella femminile – e di sottomissione totale.
L’uomo privilegiato, la donna asservita; l’uno dedito alla vita sociale di ritrovo, l’altra rifugiata tra le pareti domestiche; il primo gestore del proprio patrimonio sia umano che pecuniario, la seconda dedita ai lavori dei campi, quelli più noiosi e trascurati dal maschio.
Da qui alla “ribellione” nei giorni carnevaleschi il passo è breve; poi si rientra ciclicamente nel silenzio, nel quasi tutto prestabilito e pattuito, come succede e succedeva in comunità ad economia chiusa, curtense (e non).
Accanto a queste tre maschere – date come fondamentali – pullulano una serie di personaggi della vita quotidiana, ciarliera e bigotta: la vecchia e il vecchio in chiacchierato e rinnovato amore, il contadino nei tradizionali abiti di grezzo fustagno, le vicende notturne di persone che pongono all’attenzione la vivace quotidianità arricchita di sotterfugi, gabbature, rivalse.
Presenza non meno scontata quella del diavolo, tutto rosso, cornuto e munito di forca. A parte le leggende locali che ne dichiarano la sua nascosta presenza nei balli licenziosi, travestito da prestante giovanotto con i piedi caprini, accompagnato da avvenenti fanciulle, risulta essere il contraltare alla vita di ogni giorno, vita intrecciata di crudi risvolti lavorativi e di inesauribili espedienti per campare la giornata.
E così il carnevale, con tutto il suo gruppo di “comedie humaine”, si snoda, a suon di zufoli e di fisarmonica, di via in via, di piazzetta in piazzetta, raccogliendo, dopo il ballo, nella momentanea frenesia, quanto la gente può offrire in termini di beni immediatamente fruibili: vino, formaggio, salame, denaro.
Il tutto deve servire ad alimentare la grande cena di carnevale, una volta svestiti dalle maschere di rappresentazione, la sera, tutti in ebbrezza sfrenata e, naturalmente, tutti maschi.
Giuseppe Biati