Emiliano Rinaldini: il sacrificio dell’eroe
Era il 10 febbraio 1945 quando i repubblichini trucidarono il Ribelle per Amore Emiliano Rinaldini.
Quest’anno (riferito all’anno 2017, ndr) ricorre il 72° anniversario della fine della guerra resistenziale e di liberazione.
Il 10 febbraio del 1945, veniva barbaramente trucidato, nei cruenti fatti della lotta di Liberazione dal nazi-fascismo, il partigiano-maestro, Emiliano Rinaldini, detto “Emi”, luminosa figura di “ribelle per amore”.
Veniva ucciso dai repubblichini, dopo una avventurosa cattura e in seguito al suo pervicace silenzio nella richiesta di delazione.
Aveva 23 anni!
Suo il diario: “Il sigillo del sangue”
Così, nel ricordo tramandatomi da i miei genitori, lo voglio ricordare!
IL SACRIFICIO DELL’EROE
Era una di quelle maledette giornate di un gelido febbraio.
Bisognava passarlo in fretta questo mese, perché le avvisaglie della fine di una sempre più cruenta guerra sembravano, e si speravano, vicine.
Terso e freddo il cielo, dopo la ghiacciata notturna.
La neve, vecchia di qualche giorno, era diventata, sulla strada, dura e refrattaria alle suole slabbrate dei pochi passanti, stelliforme e luccicante sugli scoscesi pendii.
Qua e là, a breve intermittenza, qualche folata di un venticello mattutino, leggero, impercettibile, s’incuneava tra i vicoli deserti del paese.
Fuori, una bianca coltre ricopriva tutto, disturbata dal sonnolento avviarsi dei comignoli ai tepori di lente, grigiastre volute di fumo.
C’era la guerra; e con la guerra, la paura; e con la paura, l’incontrarsi mattinale dei fuggevoli sguardi, desolatamente espressivi, di quelli rimasti a mantenere in vita bestie e persone.
Nessuna novità o troppe novità susseguenti.
Quel giorno i vecchi, silenziosi ed atterriti, avevano saputo dell’ultimo rastrellamento repubblichino.
I ribelli, presi di soprassalto, non avevano potuto opporre valida resistenza.
Emi era stato catturato e portato a valle, per l’interrogatorio e la tortura.
Bisognava, con la delazione, sconfiggere le sparute schiere dei “ribelli”, poiché la montagna, seppure nella cruda morsa invernale, li manteneva nei suoi inaccessibili anfratti.
Le sperdute cascine della montagna, abitate alcune, altre abbandonate, fornivano il ricovero alle brigate ribelli.
Nell’interminabile silenzio della montagna si seguivano tutti gli avvenimenti cittadini e valligiani. Staffette per ogni dove; bimbi, furbescamente addestrati; donne, altrettanto scaltrite dalle contingenze, portavano cibo e dispacci.
Di tanto in tanto il manipolo ribelle scendeva dalla Corna Blacca e s’intrufolava nell’abitato.
C’era poco da dividere: un sorso caldo di caffè d’orzo, due fette di polenta, croste di formaggio; poi, bastava lo scambio di poche sillabe o il lampo di fuggevoli occhi a schiudere una quasi impercettibile tenace alleanza.
Il montanaro, inoltre, la ribellione se la porta nel sangue: così l’accordo diventava inscindibile.
Quella notte, a Odeno di Pertica Alta, i ribelli si erano fermati nelle case, nelle stalle; dormire al caldo ogni tanto faceva bene.
La canonica, poi, era il luogo ideale per il loro incontro. Strategie nuove, situazioni emergenti, importanti valutazioni erano da discutere, assumere, rendere operative.
S’era fatta l’alba dai rosei bagliori mutevoli.
Ad un tratto, il grido strozzato della sentinella, ad allertare tutti. Bisognava uscire dall’accerchiamento mortale.
Fuori i comandi imperiosi, mascellari, imponevano l’incondizionata resa.
Improvvisi crepitii di mitra per distogliere l’attenzione del nemico e coprire il tumulto rompevano drammatici silenzi: Emi s’era trascinato addosso il grosso; un tentativo di corsa veloce tra casa e casa, vicolo e vicolo, angolo ed angolo; la muta, incontrollata, rabbiosa di sangue, gli era addosso; i suoi compagni in fuga, liberi dall’abile, generosa mossa.
Legate le mani dietro la schiena all’ostaggio, la colonna repubblichina s’era incamminata da Odeno, attraverso Mura, fino a Idro, sede del comando repubblichino valligiano.
Interrogatori, minacce, torture non avevano portato alcun esito. Bisognava riportare il prigioniero sui monti, obbligarlo a svelare nomi e nascondigli, dopo estenuanti marce.
Ma nulla.
Ripassò Emi, nelle contrade di montagna; lo condussero, sballottandolo, fra casa e casa, vicolo e vicolo; solo il pervicace silenzio.
Da dietro le finestre delle sgretolate casupole, segreti pianti di donne, sguardi perduti di vecchi , sgranati occhi di bambini inseguivano la triste fine dell’eroe.
Poi, in località S. Bernardo di Belprato, la barbara uccisione.
Il tepore del sole di una mattinata precocemente primaverile aveva portato i ragazzi del paese nel bosco: legna per riscaldarsi e strame per gli animali erano urgenti necessità per una economia contadina che la guerra aveva ancor più immiserito.
Si incominciava a lavorare di lena; a tratti la neve disciolta aveva discoperto ramaglie e foglie secche.
Si facevano le gare, perché la sveltezza felina è una dote dei giovani montanari. La vittoria permetteva al vincitore di irridere al vinto e di dimostrare a tutti le proprie abilità.
Ma, subito, l’imprevista, dolorosa scoperta.
Il corpo di Emi giaceva lì, ai bordi della dissestata stradicciola, insanguinato, inerte.
Una fuga generale e, poi, l’avviso agli anziani del paese.
Fu ricomposto, Emi, nella sala mortuaria del piccolo cimitero montano, vegliato, di giorno, dai vecchi montanari; di notte, dalle scolte ribelli.
Nelle sue tasche le straordinarie cose della sua quotidianità: nocciole, corona del rosario, Imitazione di Cristo.
Tutto era impregnato del suo rosso sangue d’eroe.
Giuseppe Biati